“Come tante altre coppie, ci siamo innamorati anche noi al Polverun: se ne stava appoggiato alla stufa, con le mani dietro la schiena, era alto, dritto, bello… io avevo quindici anni, lui diciannove. E’ stato il mio primo moroso e da allora non ci siamo più lasciati. Il sabato sera era la serata di libera uscita, andavamo al cinema, spesso in quello dietro la Cooperativa, dove mio fratello faceva la maschera. Uscivamo un quarto d’ora prima della fine per poter stare un pò insieme…”. Questo tenerissimo ricordo di tanti anni fa è della signora Angela, la moglie di Antonio Monti, figlio del ‘Bigin’. In questa frase c’è però anche qualcosa di più del ricordo di un amore che dura da sessant’anni: racchiude un pezzo di storia saronnese che non c’è più e che abbiamo cercato di evocare. Come quella del postino che passava a quei tempi, a piedi, dal Viale Rimembranze a Via San Giuseppe a cui tanti ragazzi si rivolgevano perché trattenesse a casa sua la loro corrispondenza ‘amorosa’ che sarebbero passati loro a ritirarla lasciandogli un bicchiere di bianco pagato al bar: lo chiamavano “il pancia”, era il padre di Angela. Siamo stati più volte a casa di Antonio ed Angela Monti, dietro il Prealpi, presentati dall’amico comune Flavio Gioia. Lì la città diventa campagna ed è come essere in un altro mondo: la terra, la grande casa colonica, il camino ed una riproduzione del “Quarto stato” di Peliza da Volpedo. E poi i suoi occhi luccicanti, la sua voce che si infervora nel ricordare ed è come essere ancora nel dopoguerra quando il Berger del caffè “Il principe”, dove ora c’è una grande libreria, suonava il violino e tanti lavoratori, che finivano il lavoro alle 16 per carenza d’energia elettrica, ballavano i nuovi balli venuti dall’America. Antonio lavorava ancora all’Isotta Fraschini, Angela studiava da dattilografa. L’Isotta Fraschini chiuse nel ’49 ed Antonio, come tanti, rimase senza lavoro ma, per lui che era anche stato sindacalista, era ancora più difficile trovarne un altro. Allora ebbe una delle sue intuizioni con cui riusciva a vedere lontano e fece il contrario rispetto a tanti italiani: dalla fabbrica passò all’agricoltura, lui che oltretutto veniva dalla Cassina Ferrara da famiglia contadina e sapeva cosa voleva dire arare un campo. Affittò diversi piccoli appezzamenti dietro il cimitero e poi, lui ed i fratelli, comprarono della terra proprio dove l’abbiamo incontrato, costruirono la casa ed Antonio, sfruttando le sue conoscenze di disegno tecnico, ideò macchinari allora rivoluzionari e tutti i contadini, che lo credevano matto, rimanevano poi a bocca aperta nel vedere il suo grano perfettamente distribuito, tutto alla stessa altezza. Nonostante la fatica nel realizzare tutto ciò, non smise certo di ‘fare il sindacalista’, tanto che divenne Presidente della Cooperativa e, la sera, dopo il lavoro nei campi, faceva riunioni e scritturava orchestranti da portare al Polverone che ormai aveva aperto da tempo. E poi ebbe la seconda, grande intuizione della sua vita e lui ed il suo gruppo trasformarono la sala da ballo in una moderna discoteca, l’unica della zona, che pure è in mezzo a tre province… “La domenica pomeriggio da Via Sa Giuseppe alla stazione era tutto un via vai di persone, e poi c’erano i pullman che arrivavano…”. E non arrivavano solo i pullman: dal Polverone sono passati Celentano, Don Backy, Marcella, il saronnese Raf Moltrasio, chitarrista di Renato Carosone, lo stesso Flavio Gioia ed addirittura “quello là dall’Emilia di bandiera gialla”. Erano gli anno d’oro del Polverone ed Antonio faceva anche, a volte, il parcheggiatore ed il buttafuori come quando andò alla stazione a riprendersi una refurtiva e non si spaventò nemmeno di fronte ad una pistola tanto che fu portato tutto indietro, dalle autoradio alle cicche… Un’altra volta fece in modo che venisse arrestato un tipo che entrò con una bottiglia di whishy, erano tempi di proibizionismo (corsi e ricorsi…) ed alla sua ragazza che se ne andò dicendo “che posto di merda che è questo”, lui rispose: “sarà anche un posto di merda, ma tu ti ci sei seduta sopra!”. Poi qualcosa si ruppe, sempre più gente poteva permettersi l’auto e lì di parcheggio “ghe né minga”, un’operazione in Francia, la convalescenza, qualche screzio con chi gestì al posto suo e quindi, irrevocabili, le sue dimissioni. La gestione della Cooperativa passò allora ad Agostino Venieri poi, per un breve periodo, a Claudio Castiglioni. Adesso la “Casa del partigiano” di Via Maestri del Lavoro è diretta da Cesare Zappalà e dedicata al Bigin, il padre di Antonio, colui che quando gli dissero di fare una lista di operai da licenziare perché prima avevano un altro lavoro e quindi, forse, avrebbero avuto meno problemi, pur di non farlo si mise in cima alla lista e tornò a fare il contadino tanto che anche Giuseppe Radice ha scritto in una sua poesia: “N’ha faa de voltà tèrra ‘sto Bigin”. La nascita della Cooperativa risale al dopoguerra nella storica sede di Via San Giuseppe presso la Società di Mutuo Soccorso. A quei tempi, grazie all’attività prevalente di circolo di consumo, contribuì a soccorrere le famiglie dei deportati e dei perseguitati e poi, durante il centrismo, quelle degli ex partigiani espulsi dalle fabbriche. Come allora, è un centro di aggregazione sociale, impresa condivisa con l’Auser, associazione di volontariato che si occupa degli anziani ma non solo, e con la Cgil. L’ubicazione è l’edificio di una fabbrica tessile dismessa, l’ex Sts, che è stato messo a disposizione, tramite una convenzione, dall’Amministrazione Comunale del sindaco Gilli e ristrutturato dalle risorse della Cooperativa. Al suo interno sono tornati ad operare i “Briganti”, circolo culturale giovanile, dopo l’incendio della loro vecchia sede all’Ex Pretura e l’interludio in un’aula dell’ex Pizzigoni, ci sono corsi di danza e di ballo, di yoga e di pittura ed, al sabato sera, si balla anche se ormai i magici tempi del Pulverun, l’Arci Dancing Giardino d’inverno, sono finiti. Resta il ricordo che diventa leggenda, la leggenda di persone che hanno attraversato il secolo scorso ed i suoi momenti peggiori, lavorando moltissimo ma riuscendo anche ad occuparsi degli altri, con nel cuore dei grandi ideali che li hanno fatti entrare di diritto in quel quadro vicino al camino, dietro al Prealpi, dove la città diventa campagna ed è come essere in un altro mondo.
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